mercoledì 3 giugno 2015

Ultimo canto di un mondo morente - settimo canto dell'"Art Nouveau" di Giancarlo Petrella

È forse d'Orfeo l'animo nutrito
di lagrime ? Di tenebre lo sguardo
l’infrenato desio terminò il tempo,
dal solitario cantore commosso,
nato dall'oscurità come 'l canto;[1]
che per sette corsi col pianto l'arpa
di pie rugiade infuse per ovunque.
Le guance d’Orfeo sono forse paghe
di lacrime ? L'infrenabile Tempo
pur lo mira e nel canto si consola;
pel pianto oblïa il verde l’erba alquanto,
l’etra apprende il sangue e accompagna ‘l canto
e li occhi tristi sostiene imitando,
così i tempi sfiorando qual fior unico.
Narrasi che le foreste al perpetuo
metro del solitario vagar tacite
piangan; perpetuamente rintronando
tra mirti e querce e salici le lacrime
a consolar i mortali che pongono
in chi amano la fonte di speranza,
la ragione d’eterna giovinezza.[2]
Gli animali attenti, non più son prede,
cacciatori, ma in un coro di sguardi
odono, il tutto obliando;[3] il venerato
uffizio al silenzio la morte cede,[4]
ché non di mirar Orfeo ha l’ardore,
ben sente che il canto la strazierebbe,
brama del suolo non s’inebri il pianto.
Così Orfeo è immortale: tale 'l dolore
che ne ‘mpedisce la Morte, la bella
Euridice non condurrà alle danze,
bramando per sé un’adamantina urna;
gli infernei cani, alla stessa ragione
lontani,[5] s'avvian a render immondo
principio ogni forma, eppur di lui piangono.[6]
Libero è colui che la morte tende
a beffeggiare;[7] ed Orfeo mesce ‘l canto
con l'eterno, qual libertà mostrando
serba de la sua cetra un solo spasimo;
eppur a lui siedesi accanto il Nulla,
ma lo addestra, lo governa, lo impèra
perché vera ne conosce ‘l valore.
La Luna or fulge per il solitario
cantore e quando una luce soffusa
emana 'l canto di riudire brama;
ne’ sentieri silenti dei vaganti
augelli stellari vano il disperso
andar; e il grido loro al canto tacito,
zinzilulare[8] de le vaghe stelle.

« In guisa di delfin le trombe squillino
e de' cigni i dardi dei canti gridino
che, in corteo fauni, giungesti Euridice;
ridenti margherite, di lontano
olmarie appassite[9] co’ vagolanti
spine; e de’ papaveri[10] l’orizzonte
in morte ‘l funereo coro traduce.
Io questa ninfa bramo perpetuare;[11]
ceruleo giacinto pensoso e glicine
violureo sterminato canta e ride
odori; e quando mirerai a ghirlande
di astri la diversa prole dispersa,
memorati dei fiori; speme donagli
e giovinezza, il Sole fuggirà.
Sole solitario, nell’ombra nato;[12]
e quando l'ultimo dorato canto
concederai da li occhi consumati,
dolce compagna la morte per attimo;
sfiancato e lento, senza speme e vecchio,
non è al chiaror de la disperazione
forse più lume la dimenticanza ?[13]
Ma adriade creatura, il qual nome sciogliesi
fra le 'nnevate nevi de’ tuoi denti,
pria di saziarmi in eterno il perire
non ti prema il destino; trascorrendo
vecchiezza tra le pallide tue braccia,
fedel rimanendo a la veste candida,
e si sazierà 'l mio labbro e la guancia.
Su la tua beltate arenasi un cigno,
mira, è pallido men delle tue forme;
non una funerea valle ha tante urne
quante viole 'l suolo ove il sacro piè
tuo volava; ronzano a te dintorno
gli Dei, ben sentono che un sol tuo sguardo
sul lor infinito tedio sentenzia.
Quando il Sole lacrima, mai vedrà
le tenebre, e al punto più alto dell’etra
di giungere non si consola, miralo;
il venerato sciame degli Dëi
il mistero in te ben sente dell'essere;
nei tuoi lumi si siede il cielo, il tutto
da altro punto,[14] dovuto sdegno, mira.
E quando nel cimitero de li astri
sarai,[15] dove da sé l'etra si tempra,
madre dell'ombra, ancella a’ sogni, volgiti;
osserva l'errante negletta terra,
dal suo usato pianto solleva il Sole,
il solitario conforta e concedi
un dolce sogno a le placate stelle. »

In un col Sole soleva cantare,
or neppur il mal sonno lo distrae;[16]
col pianto la realtà tutta sfamando;
la morte più lontana della giòia;
pur se immortale, l'arte non ha appreso
del sentenziare addio; e nell'orror memora;
muore in eterno chi sfiora le stelle.
Più triste in ogni tramonto il solare
diviene; tempra greve cecità
il dolore de la sua solitudine;
in una notte, per malinconïa,
luci diffuse la Luna per tenera
compagnia; brama 'l solitario Sole
d'esser una di quelle fioche stelle.
Più addolorato in ogni istante 'l Tempo
diviene; ben conosce il suo destino,
muto sarà e tacito quando l'ultima
indivisibil parte[17] perirà;
così quando un uomo la volontà
ha consumato, lì giunge 'l declino;
per placarlo lo mireran le stelle.
Più disperato in ogni tempo Amore
diviene; chi dolci detti a l’oreglio
giovine[18] può soffiare? a sé rimane
un'ombra di resti d'una metëora;
temprano le lacrime la sua essenza,
l'arcana origine per cui ne li occhi
dei mortali di più ardono le stelle.
Nel tramonto il Sole tardo diffonde
le ultime lacrime a la triste gleba
pregna del pianto; giace ne li antichi
occhi la disperazione del mondo,
armonia all'eterea sanguigna veste;[19]
negli occulti sentieri s'appropinquano
a percuotere il tempo le pie stelle.
Sordo è 'l grido de la crudele morte
e il romore de la vittrice sorte
se da deserte terre arcane il carme
asperge sovra l'eterna memoria;
nasce dalla Notte 'l canto e da sé
splende, come ogni mia lagrima, invidia
de li Dei, luce maggior delle stelle.
Padre mio, Orfeo, lacrima nella storia,
disperazione che 'l tempo consola,
de le gravi angosce mortali gloria
eterna e dei canti vari otterräi,
fin quando ‘l Sole, desiando la Luna,
nel tentare di celare le lacrime
che lei diffonde, spegnerà le stelle.


[1]Anche l’atto della creazione poetica proviene dal nulla, dall’oscurità.
[3]Per colui che ama, l’amata coincide con la fonte di ogni sperare e di una giovinezza perpetua.
[4]Medesimo oblio che dilegua la sofferenza.
[5]Dante, Inf., V, v. 18: «Lasciando l'atto di cotanto uffizio»: la morte e il giudice infernale, chi per terrore del soffrire, chi per tracotanza d’orgoglio, terminano - momentaneamente - il loro operato.
[6]A causa del dolore la distruzione, come la morte, è ben lontana.
[7]L’oblio è ben lontano da Orfeo, eppur di lui piange, ma non termina il suo arcano ufficio.
[8]Dacché la libertà è l’oblio della morte.
[9]Zinziāre, zinzilāre, zinzitāre, zinzilulāre; detto del tordo, soprattutto della rodine.
[10]Piante medicinali, pur non v’è cura al dolore.
[11]L’oblio.
[12]S. Mallarmé, L’Après-midi d’un faune, v. 1: «Ces nymphes, je les veux perpétuer».
[13]Pur il Sole, essere solitario, è nato dall’ombra.
[14]Son funeste queste parole cantate da Orfeo, ma subito tenta di ritornare alla sua adriade creatura.
[15]Dall’alto dei suoi occhi.
[16]Invece Euridice è ben negl’inferi; cfr. il Carme precedente (Et in Arcadia ego).
[17]Ché non dorme mai, come Maldoror: materia successiva dei miei canti.
[18]L'atomo.
[19]Canto VII: l’amore è «la ragione di eterna giovinezza». Ndc
[20]Canto VII: «l’etra apprende il sangue». Ndc


di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Art Nouveau”
Proprietà letteraria riservata©

Questo Carme consiste in una variazione sull’etimologia di Ορϕεύς: ορφνη (tenebra), ὀρφανός (che vive solo).

nb. Le note segnalate con la dicitura Ndc sono a cura di Nicoletta Pia Rinaldi - Proprietà letteraria riservata©

4 commenti:

  1. Sto leggendo tutti i brani riportati su questo sito con grande interesse. Condivido molte (anche se non tutte) le scelte stilistiche e formali, e mi piacerebbe discuterne con l'autore, una volta concluso lo studio di tutto il materiale reso disponibile. Non nego che mi piacerebbe poter disporre delle opere complete, per un'opinione più approfondita.
    Relativamente a questa opera: ho letto con grande interesse il brano e la lettura critica di esso. Il mito è a me molto caro.
    Nell'auspicio di fare cosa gradita, voglio condividere un testo e alcune riflessioni sulla significativa figura di Orfeo.

    " Orfeo, resosi conto che ormai la sua amata è solo una gelida ombra di morte, e che il passato non va riesumato, si rassegna alla caducità delle cose, e alla realtà del nulla e della morte.
    "Orfeo: Tu dici che sei come un uomo. Sappi dunque che un uomo non sa che farsi della morte. L'Euridice che ho pianto era una stagione della vita. Io cercavo ben altro laggiù che il suo amore. Cercavo un passato che Euridice non sa. L'ho capito tra i morti mentre cantavo il mio canto. Ho visto le ombre irrigidirsi e guardar vuoto, i lamenti cessare, Persefòne nascondersi il volto, lo stesso tenebroso-impassibile, Ade, protendersi come un mortale e ascoltare. Ho capito che i morti non sono più nulla.
    Bacca: Il dolore ti ha stravolto, Orfeo. Chi non rivorrebbe il passato? Euridice era quasi rinata.
    Orfeo: Per poi morire un'altra volta, Bacca. Per portarsi nel sangue l'orrore dell'Ade e tremare con me giorno e notte. Tu non sai cos'è il nulla.
    Bacca: E così tu che cantando avevi riavuto il passato, l'hai respinto e distrutto. No, non ci posso credere.
    Orfeo: Capiscimi, Bacca. Fu un vero passato soltanto nel canto. L'Ade vide se stesso soltanto ascoltandomi. Già salendo il sentiero quel passato svaniva, si faceva ricordo, sapeva di morte. Quando mi giunse il primo barlume di cielo, trasalii come un ragazzo, felice e incredulo, trasalii per me solo, per il mondo dei vivi. La stagione che avevo cercato era là in quel barlume. Non m'importò nulla di lei che mi seguiva. Il mio passato fu il chiarore, fu il canto e il mattino. E mi voltai.
    Bacca: Come hai potuto rassegnarti, Orfeo? Chi ti ha visto al ritorno facevi paura. Euridice era stata per te un'esistenza.
    Orfeo: Sciocchezze. Euridice morendo divenne altra cosa. Quell'Orfeo che discese nell'Ade, non era più sposo né vedovo. Il mio pianto d'allora fu come i pianti che si fanno da ragazzo e si sorride a ricordarli. La stagione è passata. Io cercavo, piangendo, non più lei ma me stesso. Un destino, se vuoi. Mi ascoltavo."
    [Cesare Pavese - Dialoghi con Leucò]
    Significativo anche il dipinto di Moreau, squisita e decadente immagine simbolista che riporta il capo mozzato di Orfeo, ritrovato dopo lo sparagmos (la lacerazione in pezzi), sulla sua Lira, simbolo dell'integrità del canto dopo la morte terrena, lascito a chi lo succederà di non arrendersi al silenzio, pur accettando la sua esistenza. Insomma, la negazione del Virgiliano noli respicere, perché, come diceva Heidegger, l'essere-per-la-morte porta l'individuo al coraggio dell'angoscia di fronte ad essa, e biosgna voltarsi e non negare la sua condizione ontologicamente insuperabile, [...] il Si non ha il coraggio dell'angoscia di fronte alla morte [...] - voltandosi Orfeo frantuma l'inganno di un'eterna giovinezza e accetta la fragilità - e per questo la preziosa essenza - della vita stessa."

    (continua)

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    1. Mi scuso sinceramente per il ritardo, ma non visto la notifica del suo interessante e corposo commento. Sono veramente felice che segua l'evolversi della pagina/opera; a breve verranno pubblicati tutti gli altri componimenti.
      Cordialmente

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  2. (continua)

    L’ultimo canto di Orfeo.

    Sacro l’insopportabile silenzio
    mai più l’onorerai nel tuo tormento,
    tutto intriso d’immagini fatali,
    di quel veleno bianco de’ ricordi;
    rapida la tua lira, e troppo inquieta,
    tratteggia quest’incanto disperato
    che l’arbusti già piega, aduna a te
    pur le feroci belve ammansuetite,
    tutte in balia del canto tuo, e mistero,
    del bello e delle note tue d’argento,
    magro pianto vestito di maestà.
    Ed Euridice? Troppo doloroso
    t’è solo il pronunciar quel freddo nome,
    lo spettro suo che supplice sussurra
    ‘l nome tuo, tutto intriso di quel vuoto
    ch’avea agghiacciato intera la sua vita,
    già sostituisce dolci le memorie,
    sconfitte e trasparenti del passato
    un caro inganno, ch’invitto pur volevi,
    sacrandolo d’in sopra ‘l freddo tempo.
    Lasso Orfeo, t’illudevi, e discendendo
    le gole onde quell’anime perdute
    son dissolte, le vedi prese e accolte
    tutte nel dolce oblio senza eccezioni,
    l’ombra appena lasciando della gioia
    di quell’ormai corrotto crine aurato,
    eco magra del guardo un dì vivace,
    che tanto ingenuo all’Ade hai chiesto indietro.
    Troppo tardi t’accorgi del tuo errore,
    l’amata tua è perduta, e quel che cerchi
    non è di quel fantasma più l’essenza,
    quel che demandi ormai è svanito e vinto;
    vuoi forse condannare a tanta pena,
    pietoso quell’inganno prolungando
    di ghermire quel gelo invitto e fero,
    la dolce amata, sol pel tuo capriccio?
    Certo non puoi, e lento volgi indietro
    tristissimo ‘l tuo guardo lacrimoso,
    quando appena, percorsi fino all’uscio
    del limitar d’Averno i bui sentieri,
    l’occhi incavati e spenti d’Euridice
    ti supplican preghiere d’oltretomba,
    e ‘l ricordo d’un macabro perdono,
    che sembra dirti: “Grazie, amor: mai più.”
    Mai più l’abbraccerai quel suo fiorito
    tepore confortevole del petto,
    la passione del caldo lagrimare,
    mai più ‘l conforto avrai dei baci suoi.
    Tetro l’insopportabile silenzio
    l’assali, con la pregna frenesia
    delle note argentine e disperate
    di quella lira, le cui corde tese,
    folli e incapaci additano l’empireo.
    Così tutto il crëato incanti e muovi,
    fiducioso che il Dio ti vinca e anneghi,
    dimenticanza eterna concedendo.
    Rapida ti travolge, ed improvvisa,
    la furia delle Menadi, impazzite
    dell’ebbrezza insensata che l’Olimpo
    sa ben piegar mutandola in destino:
    ecco che alfin violenta tanta quiete
    frantuma il tuo dolore disgraziato,
    lacerando del corpo tuo le carni,
    per poi gettar le spoglie, e la tua lira,
    via nell’acqua dell’Èvros furibondo.
    Perduto il guardo va, verso il prescritto
    Lete inferno, dall’acque infauste ai vivi,
    sullo strumento, caro a que’ tuoi giorni,
    dove ora posa il capo mozzo e inerte,
    quel canto destinato a soffocare
    nell’estremo silenzio, il sol ricordo
    lasciando ai vivi, fragile e mortale,
    divino di quel suono oggi remoto,
    le corde tenue tomba della voce
    eco lontana, retaggio pei viventi
    che dolce quest’ambrosia non è eterna.
    Molle resta quel dono, triste avello
    dell’uomo che fu noto come Orfeo:
    quella lira, ch’il mondo stringe e muove,
    fino agli spalti azzurri dei misteri
    divi, che indifferenti stanno altrove,
    sa pur lanciar minacce agl’immortali:
    forse è umano quel braccio che le scaglia,
    ma più fatale è il dardo e pertinace,
    canto che forse i secoli avran vinto,
    che il nulla forse annega nel suo lento
    annichilire, ma certo forza estrema
    che dalle spoglie l’uomo consumato
    fin sull’eterno spinge e quasi avvince.

    Ringrazio per l'occasione di poter condividere - anche solo virtualmente - una passione così grande, e purtroppo così demodé.

    Un saluto.

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