mercoledì 31 maggio 2017

Prefazione dell'Autore all'Art Nouveau

Leggere un libro tanto per leggerlo, per trascorrere del tempo, se a ciò si riduce la vostra intenzione, ad altro dedicatevi. Non si legge per evadere dal reale, per consolazione, per distrazione, per curiosità, viepiù per un’esigenza di pulizia, d’ordine, di rispetto, di riconoscenza, d’affetto, d’invidia. Si legge per le medesime ragioni per le quali una volta si cercava di preservare qualcosa al di sopra della vita: l’onore.
Sentire la rima come qualcosa di imbarazzante, laddove si riveli elemento portante, e di errato, con l’esclusione di pochi versificatori, sentirla come superficiale, che svergogna il senso fonetico stesso del verso (rima che alletta l’orecchio imbelle dei più, che preferiscono «melodie canticchiabili», magari «fischiettabili», al severo contrappunto o ad armonie complesse) questa sensazione di perplessità di fronte la rima, significa l’esigenza di un verso nuovo; che fu antico, dacché antecedente a Dante. Ovvero: non monotonia e agile cantabilità, ma bellezza di canto.
Voler distanziarsi, sentirne la necessità (qui volontà e necessità coincidono) significa danzare fra due baratri: da un lato v’è l’immediatezza, che rimanda alla gravità, dall’altro l’artificiosità. I più sentenzieranno narcisismo; narcisismo il rifiutarsi di cedere all’immediatezza e che, a lor dire, denuncia la credenza d’essere diversi: siamo tutti uguali, grida l’uomo della strada, pronto a crearsi idoli al di sopra di lui, dacché ne ha pur bisogno.
Vano è far comprendere (comprensione intellettiva non v’è), ch’un sentimento aristocratico si autogiustifica. Presso gli antichi le idee, talune idee in particolar modo, si autogiustificavano; gli uomini erano degli opachi riflessi. «L'État, c'est Moi»: non sussiste necessità d’alcuna dottrina politica: a che servono i pensieri? le catene dei ragionamenti? l’eziologia e la gnoseologia? non basta il mio sentire? il mio vedere? l’immediatezza del mio essere per giustificare le mie speranze?
Ho sì posto delle note, ma non sono esplicative, neppur indicative; semplicemente vanno lette - per la maggior parte - come degli omaggi. Eliminare non tanto il superfluo, quanto non farsi sfiorare.
Ciò che è ho voluto offrire al diadema delle muse (the case presents adjunct to the Muses' diadem), col primo volume, di una prima parte di un Poema[1], è un nuovo modo di sentire il verso, in cui le questioni fonetiche sono più importanti degli schemi fissi degli accenti metrici: per il lettore curioso, il quinto canto spiega da sé le mie intenzioni. Per depotenziare l’endecasillabo canonico a maiore e a minore, ho preferito accenti sulla quinta e, qualora persino sulla terza, in tal caso ho posto dei quaternari: nella letteratura italiana appaiono di rado, li ho trovati semmai rapidi. Sono conscio che un’operazione del genere, per chiunque si sia mai confrontato con questioni metriche, sia inusitata, strana, “strampalata”; ma il mio gusto estetico, già giustificherebbe da sé la scelta, di poi v’è la certezza che prima delle forme espresse dal Petrarca, rimatori sparsi per l’Italia, hanno sentito l’esigenza primitiva di un suono, a voi, diverso.
Logicamente l’opera inizia con un’accordatura:

[1]Di un poema si tratta, non di singole poesie sparse.


di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Art Nouveau”
Proprietà letteraria riservata©

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